mercoledì 17 dicembre 2008

UNA FAVOLA PER TUTTI BY GIB



Lupo

…vorrei chiedere perdono ai bambini per la mia imperdonabile mancanza di fantasia…
(G.B)



Credo che ci sia già stata una bambina all’inizio di una favola, una bellissima bambina che amava i suoi genitori e da loro veniva amata di contro.
Dunque, dopo aver detto di Aimil, potrei raccontare del regno in cui questa piccola principessa viveva, le montagne che circondavano il suo villaggio; il fuoco sempre accesso in quella che fungeva da piazza principale e le tende con cui il suo piccolo popolo si spostava alla ricerca di cibo.
Aimil viveva all’albore dei tempi, quando non si conosceva che il fuoco e poco altro, le frecce costruite con la pietra e l’inseguimento delle mandria di bisonti. Accadeva anche che talvolta, qualche abile cacciatore riuscisse a prendere un cervo o una lepre, ma Aimil non voleva mai mangiarne.
“Perché, figlia mia?” le domandava la madre preoccupata preparando le porzioni che spettavano alla famiglia.
Perché dovete sapere che ogni preda veniva lavorata e conservata per i tempi più duri, quando anche i bisonti non si facevano trovare e le lepri correvano più veloci delle armi anche del più abile fra i cacciatori.
Nella gente di Aimil, non vi era un solo guerriero, dal momento che in quella zona remota del regno, nessuno osava avventurarsi per le storie che su quelle terre venivano raccontate da lontano.
Si sa che le leggende, specialmente quelle che parlano male di qualcuno o, magari di una montagna, viaggiano più veloce del polline che in primavera ti fa starnutire fortissimo, così anche fra quegli alberi secoli e le vallate, grazie alla fantasia della gente, erano venuti ad abitare orchi e draghi, diavoli con mille code che nessuno aveva mai visto.
E le persone più semplici d’animo e di cuore, vi credevano ciecamente, specialmente nel caso che fosse qualche sciamano a raccontarle.
Ne aveva sentita qualcuna anche Aimil, ma era stato suo padre stesso a prenderla da parte una sera di molto tempo prima per raccontarle che se lei avesse creduto il bene, una fata l’avrebbe protetta in ogni momento.
Aimil aveva annuito ancora scossa dai racconti di un cugino più grande che, a sua volta, aveva appreso di tre fratelli cattivissimi, figli del diavolo, che pareva scorazzassero per quelle terre dimenticate dal cuore della gente.
“Aimil, mangia la carne” insisté la mamma vedendo la figlia che giocava con il cibo nella sua ciotola di legno lavorato.
“Era vivo, prima” aveva borbottato Aimil alzandosi dal suo posto vicino al fuoco.
Ed anche questo è da sapere: ogni tenda poteva accendere un focolaio al suo interno, a patto che ci fosse un componente della famiglia a cui fosse stato concesso questo onore. Infatti, non tutti ne possedevano uno. Ma suo padre era considerato uno dei migliori nel badare a cose del genere e di questo, Aimil se ne vantava sempre con le amiche.
C’era un cielo bellissimo.
“Viene voglia di andare a camminare”
Gli altri la guardarono senza riuscire a proferire parole. Era di fatto quella l’ora in cui si era soli andare a dormire. Il sole ormai era tramontato da tempo e il buio avvolgeva l’accampamento.
Perché poco oltre la luce dei falò, il mistero era re e padrone dei pensieri di Aimil. Ma quella sera, la paura lasciava lentamente posto alla curiosità. I racconti di suo padre ormai non stavano più nella mente. Il cuore la portava lontano, a curiosare fra le fronde degli alberi, sotto i funghi dove abitavano i padroni del bosco, le fate.
Suo padre ne aveva sentito qualche notizia da uno sciamano solitario incontrato in un viaggio alla ricerca di erbe medicinali. Quest’uomo, ormai anziano e triste, si era seduto su di un sasso ed aveva cominciato a raccontare delle storie sugli spiriti dandolo loro il nome di fate.
Aimil stette per qualche minuto a fissare le ombre che parevano danzare oltre il campo sistemato appena sotto una montagna ricca di arbusti e bacche.
Li aveva raccolte insieme alla mamma, quello stesso pomeriggio, guardando spesso verso la cima, incuriosita ed insieme inquietata dalla forma di quella roccia lassù in cima.
La mamma le aveva detto di smetterla con certe fantasie; poi aveva chiamato suo padre per rimproverarlo di mettere dentro la testa della bambina certe cose sconvenienti.
“Non lo sono affatto” aveva cercato di protestare Aimil.
Ma non aveva quasi fatto in tempo a finire la frase che si era dovuta spostare per evitare che la mamma la colpisse con un sonoro ceffone. Così se n’era andata al suo posto, dentro la tenda, cercando di immaginare un viaggio fantastico a calcioni di un spirito buono. Sognò di potergli ordinare di fare qualunque cosa, di procurarle i cibi più gustosi e il letto più morbido del mondo.
Ora, seduta su di un tronco, con gli occhi piantati in un sogno ad occhi aperti, cercando di resistere al sonno, si sentiva così sola e triste. Gli altri bambini, ubbidienti, se ne stavano andando, ma Aimil riuscì a nascondersi sotto un catasta di pelli appena lavate.

Si svegliò quando tutto era silenzio e il buio pareva giocare a nascondino con le lingue gialle di fuoco dei falò. Aimil controllò che il guardiano al centro del villaggio non la vedesse e andò dove la luce della luna illuminava la strada.
Per il freddo, si era portata una pelle più asciutta delle altre, ma ora non sentiva il bisogno di metterla e la teneva in mano ben piegata come le aveva insegnato la mamma.
Uscendo dal campo, trovò subito quello che doveva essere un sentiero. Provò a ricordarsi delle spiegazioni che il saggio le aveva dato una sera di tanto tempo prima.
Erano stati gli animali che passando di lì, avevano fatto si che l’erba sparisse e gli alberi si scostassero di quel poco da creare un passaggio. Pensò con gioia che alla fine di quel sentiero, avrebbe potuto trovare dell’acqua o una radura ben riparata per riposare.
Non era la prima volta che dormiva all’aperto, cercò di convincersi con tutta la forza di cui era capace. Ma, a nove anni, non era sicura di riuscire a fare tutte le cose che si debbono fare in certe occasioni.
Si fermò, ai piedi di un grande ed alto larice per ripassare ogni singolo passo. Poi si mosse, verso la radura che immaginava sarebbe arrivata di lì a poco.
Ma rumori di animali, foglie schiacciate le bloccavano le gambe. Cercava di ripartire ogni volta con più speranza ma la paura le stava impedendo di rispettare la sua personalissima tabella di marcia. Sentiva di star perdendo tempo, che se gli animali feroci l’avessero sorpresa fuori, non sarebbe stata una buona cosa.
Aimil ricordò di un suo amico che non era più tornato e per questo improvvisamente si arrestò nei pressi di un piccolo boschetto da cui filtrava uno strano rumore, un gorgoglio.
“Cosa sarà?” pensava la piccola principessa.
E così cominciando ad avere davvero quella paura che non ha volto ma mille voci, Aimil, si ritrovò accucciata come un piccolo riccio attaccato da una volpe. Ma appena fece qualche passo spinta più dalla fame che da altro, si ritrovò sulla riva di un piccolo ruscello che scorreva lento e tranquillo.
Sull’altra sponda, vide un cespuglio di bacche commestibile e così, senza pensarci l’attraversò allungando i suoi piccoli passi più che poteva. Arrivò in breve a strappare, spesso insieme alle minuscole foglie, le bacche rosso scuro con cui la nonna aveva sempre condito la carne di bisonte.
E quella, più di altre, le sembrano immensamente buone. Quando ebbe finito, guardando la pianta ormai spelacchiata, fu avvolta da una leggera tristezza. Lei non aveva mai fatto del male alla natura ed ora, dopo aver aggredito la piccola pianta, si sentiva crescere dentro un senso di colpa che avrebbe potuto benissimo evitare.
Così, Aimil si ritrovò a dormire dentro un grosso tronco cavo che giaceva vicino ad un ansa del ruscello. In breve, i rumori che prima l’avevano tanto spaventata, tacquero e la bambina sprofondò in un sonno popolato di creature strane e di fate benigne.

Al mattino, quando ancora gli uccellini non avevano cominciato a cantare, Aimil, si svegliò di soprassalto, come se qualcuno avesse dormito con lei.
Infatti, si sentiva calda, coccolata da uno strano tepore. Stropicciandosi gli occhi, cercò di mettere fuori la testa dal tronco, ma si trovò al contrario della posizione in cui si ricordava d’essersi addormentata.
Toccò l’interno del tronco, liscio, coperto da licheni e fu percorsa da un brivido. Dei peli erano dappertutto. Aimil si guardò la mano e sgattaiolò fuori per vedere la luce.
Peli chiari, come i capelli di sua sorella, ma non biondi. Ce n’era infatti qualcuno nero, quasi perso in mezzo agli altri. Lo osservò attentamente. Nella sua vita, mai aveva avuto la possibilità di vederne uno.
Se lo passò lentamente fra le dita e quasi le parve di sentire il calore dell’animale che l’aveva lasciato vicino a lei. Forse anche lui, cercando calore si era infilata in quel tronco e, trovando un corpo caldo, aveva deciso di rimanere per passare la notte.

La mattina le rivelò un’innumerevole quantità di fiori. Aimil si fermò per coglierne qualcuno per la mamma e la sua nonna. Loro si che amavano i colori vivi e intensi attorno alle tende, sopra le tavole.
Solitamente, lavorando insieme con le pietre, le vedeva creare dal nulla immensi spettacoli che, sfortunatamente, quasi nessun uomo pareva apprezzare.
Lo spettacolo di quelle corolle bianche, di quei petali rossi e gialli e viola, durava sempre poco, fino a che la cuoca non portava in tavola il pranzo. Così i fiori venivano messi in un angolo e poi buttati senza che mamma o nonna potessero fare qualcosa.
Aimil pensò a loro intensamente e si lasciò cadere sul prato in cui era capitata dopo essersi abbeverata al ruscello.
Eppure, distintamente, sentiva un rumore costante di foglie, come di piccoli passi leggeri e impercettibili. Vicino a lei, fra la boscaglia, ormai era sicura che si stesse muovendo qualcosa.
Si fermò improvvisamente, il rumore si fece più forte ma la paura era troppo e non ebbe cuore di voltarsi. Riprese a camminare, prima piano e poi sempre più veloce fino a che, senza accorgersi, si ritrovò fuori dalla radura.
Lì, si apriva una distesa immensa, dove alberi e spazi verdi parevano danzare rincorrendosi come due innamorati. Eppure tutto le parve in equilibrio e in pace.
Si dimenticò del rumore e con sguardo grave, cercò davanti a se qualche pianta di cui cibarsi. Di certo, non poteva cacciare, così decise di andare a cercare delle bacche.
Aimil era quasi certa di trovarne. La nonna le aveva insegnato dove queste piccole delizie crescevano, esattamente vicino a quel tipo di albero, non nei pressi di una pineta e nemmeno dell’acqua.
Infatti, non fu difficile scorgerne una pianta carica. Aimil vi si avvicinò saltellando allegra, ma subito fu inchiodata da quel rumore. Ora pareva un pianto, come se un bambino fosse stato abbandonato e stesse chiamando la mamma.
Ma lei non sapeva che fare. Era immobilizzata dalla paura.
Anche la creatura però rimaneva nel cespuglio, immobile.
Senza sapere come, Aimil fece il primo passo. Poi un altro e un altro ancora. Così facendo si ritrovò a pochi centimetri dal cespuglio e lì però esitò. Il rumore era diventato un sospiro leggero.
Un salto indietro.
“Cosa sei?” urlò Aimil.
E la bestia tornò, scomparendo di nuovo, a nascondersi nel verde del cespuglio.
“Vieni fuori” ordinò la piccola principessa alla bestia.
Ma lei, o lui, pareva non averne alcuna intenzione e tutto era tornato a tacere, quieto come certe volte capita solo al grande lago.
Lei, il grande lago l’aveva visto solo una volta in tutta la sua vita. La famiglia si era recata là per rendere omaggio al grande spirito per aver donato alla comunità un nuovo bambino, suo fratello.
Altre volte, altre famiglie amiche avevano intrapreso il viaggio, ma ogni volta, le era stato detto che sarebbe stato necessario che lei fosse stata più grande. Così, in più di una mattina, aveva visto partire la carovana verso il lago.
Ora, cercando di scacciare la paura, il suo unico pensiero, non era scappare ma stanare quella bestia.
Aimil allungò la mano.
Ma non riuscì neppure ad urlare che la bestia era davanti a lei, balzata fuori in un secondo dal cespuglio. Coperta di piccole foglie, le sembrò mostruosa e cattivissima, il peggiore di tutti i suoi incubi.
Desiderò ardentemente l’intervento di una di quelle fate di cui papà parlava sempre.
La bestia emise uno strano suono, cupo, roco seppure non terribile. Aimil lasciò cadere le mani che si era messa sugli occhi e, dopo esserli stropicciati, guardò diritto davanti a se.
Doveva essere una di quelle ombre che aveva visto muoversi una volta intorno al capo. Gli adulti sapevano di quelle creature, eppure non ne raccontavano mai nulla ai bambini, anzi, li ammonivano di non allentarsi mai, pena il rischio di essere divorati.
La bestia avanzò di qualche centimetro verso di lei, ed Aimil istintivamente le diede una carezza. Questo gesto così semplice calmò entrambi, ed anzi, quasi subito, il piccolo animale cominciò a leccarle il palmo della mano.
Aimil cominciò a ridere per il solletico e lui subito si scansò.
E non era enorme. E non era affatto feroce o brutto. Al contrario, Aimil pensò che fosse davvero carino e simpatico, e cercò ancora una volta di accarezzarlo.
“Non avere paura” disse la bambina.
Questa volta la carezza centrò il bersaglio.

Ma improvvisamente, Aimil sentì nostalgia di casa, della mamma, di un pasto caldo e del suo giaciglio dentro la tenda; del fuoco e delle voci della gente intenta a svolgere il proprio compito. Provò il desiderio disperato di non essere lì e senza pensarci abbracciò il piccolo animale.
E quando Aimil si accorse di cosa stava facendo, spaventandosi un po’, lui invece se ne stava tranquillo fra le sue braccia, con gli occhi chiusi e il respiro lento e dolce.

Ormai non credendo più di dover continuare, pentita sinceramente di quella sciagurata fuga, Aimil lasciò andare la bestia e si guardò intorno cercando di orientarsi.
Per fortuna, non si era scostata molto dalla grande montagna, e così le parve di riconoscere la radura, vista da dietro e fu quasi certa di sentire di nuovo il rumore del ruscello.
Così si mosse piano, senza voltarsi. Ed il rumore tornò, uguale a quello del viaggio di andata, quel respiro un po’ affannato ed irregolare.
Si voltò e vide la bestia che la guardava implorante.
“Vattene via” disse Aimil senza convinzione.
Riprese a camminare, cercando di fare come se niente fosse. Ma, in realtà, era contenta che quell’essere la stesse seguendo, come una fata protettrice. Sorrise all’idea che una creatura figlia del grande spirito potesse prendere quella strana forma.
Dopo poco, si fermò a cogliere un po’ di bacche del bosco e sentendo l’animale piangere, fu costretta a voltarsi. Quando lui vide che la bambina le stava tendendo le mani, corse veloce e cominciò a leccarle dalle dita il succo delle bacche appena raccolte.
“Come ti chiami?” chiese Aimil.
Ma la piccola bestia non poteva rispondere.

“Dovrò darti un nome, io” mormorò Aimil cercando di ricordare qualcosa del viaggio che l’aveva portata fin lì. Così, ritrovò il lungo albero e quelli che dovevano essere i suoi piccoli figli. Vi passò attraverso facendo accarezzare dai dolci aghi. A lei, piaceva molto farlo, così vi indugiò qualche istante.
Intanto la piccola bestia aspettava qualche passo indietro. Sembrava proprio non volesse andarsene.
“Non posso tenerti” gli disse Aimil voltandosi improvvisamente.
C’erano due occhi spaventati e pieni di speranza che la guardavano. Aveva ripreso anche quello che le parve il pianto di un bambino.
“Credo che il papà non mi permetterà di tenerti” ripeté la piccola principessa quasi singhiozzando. “Tu sei un’ombra che per giunta si è incarnata. Sei cattiva”
Lo dissi ma in realtà non lo credeva affatto. Quella era la creatura più dolce che avesse mai visto. Non resistendo, gli diede un’altra carezza e lui smise di piangere. Se lo prese le braccia e lo baciò stringendolo forte.
“Ti porterò con me”
E le parve che la piccola bestia potesse capire. Infatti, la vide saltellare davanti a se. Ora era lui a guidarla, sicura e decisa, voltandosi di tanto in tanto per controllare che Aimil ci fosse ancora.
“Lupo” disse Aimil fra sé e sé.
Era una parola che aveva sentito dire a nonna, ripetere da papà la stessa sera.
“Lupetto!” gridò verso la bestia.

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